Osservazione interessante. Gli esercizi di pranayama però non portano mai all'ipocapnia, e questo è uno dei motivi per cui si è scelto di abbinare questo modo di respirare alla pratica dell'apnea. Perché? Perché i nostri centri respiratori in pratica basano l'attività spontanea sui livelli di anidride carbonica. Iperventilando si aumenta la pO2 e si diminuisce la pCO2, per cui riescono a tirare apnee più lunghe. Però, venendo a mancare il segnale dato dalla CO2, ci si ritrova ad essere ipossici e normocapnici, con lo stimolo ad inspirare inibito. Quello che fa capire a un apneista quando si avvicina al limite, soprattutto all'inizio, sono le contrazioni diaframmatiche: in pratica all'aumentare della pCO2, si attivano i motoneuroni frenici, che ineescano le cosidette contrazioni diaframmatiche (che poi si impara a controllare). Un'apnea condotta in ipocapnia spinta porta facilmente alla sincope.
Il pranayama, ad eccezione dell'esercizio, se così possiamo definirlo, kapalabati, non ha mai azione ipocapnizzante, ma provoca una miglior ossigenazione e una riduzione dell'attività ortosimpatica tramite stimolazione vagale.
Quando si è in ritenzione espiratoria coi 3 bandha attivati, si riescono a bloccare le contrazioni, e non ventilando la pCO2 sale. Capito?
Segnalibri