Era presto quella sera in cui andai a letto.
C’era ancora il sole a salutare un arrivederci a domani.
I rumori all’esterno erano quelli tipici di un città agli sgoccioli
prima del rito della cena.
Avanti e indietro le persone sul marciapiede,
avanti e indietro il criceto nella sua ruota.
Volevo dormire e non pensare alla giornata di lavoro,
ai piccoli soprusi subiti, al rapporto asettico e verticale
che per l’ennesima volta avevo vissuto in ufficio, dal basso.
Provai allora a chiudere gli occhi,
ma dovetti riaprirli: stavo ricordando.
Tornavano nella mia mente i giorni confusi
e i volti amati.
Spingevano tumultuose le mie meningi
correndo il rischio di confondermi ancora di più.
Ero spiazzato: quel dolce sapore amaro della rimembranza
mi rendeva consapevole a autolesionista a un tempo.
Mi faceva sentire la malinconia di qualcosa che non c’è più,
e mi apriva il cuore.
Si schieravano davanti ai miei occhi tutte quelle persone,
tutte quelle sensazioni,
racchiuse nello zainetto che porto dentro di me,
e che purtroppo solo lì rimarranno.
Non torneranno più le persone per me importanti
e le storie spalmate sulla pelle.
E’ strano come un ricordo possa uccidere un uomo: lentamente.
E’ strano come il nuovo debba per forza far parte di noi,
comprimendo all’inverosimile il vecchio che resiste.
Decisi però di addormentarmi,
e cedetti al morso del ricordo.
Erano i giorni estivi dopo la scuola,
i pomeriggi con la persona che più amavo.
Quel miscuglio di sudore e vita che crivellava i nostri corpi.
Non c’era razionalità, non c’era profitto:
il soffitto della nostra stanza era un cielo talvolta nuvoloso.
Il sapore di ogni momento trascorso,
il miele della sua bocca,
l’Alcantara della sua pelle.
I suoi zigomi carnosi e golosi
erano una sola cosa col mio gioire di lei.
Non so esattamente quante volte passai le mani tra quelle spighe dorate
e neanche quanto sole rubò per essere così splendida.
So solo che lei c’era,
ed era talmente forte la sua dolcezza
da rendermi quasi crudele rispetto al resto della mia vita.
C’erano le sue mani a confortarmi,
c’era la sua maglietta, che poi volava via,
c’era la sua mancanza di violenza
e c’erano i fiori sul nostro cammino.
C’erano le parole d’amore che oggi mi mancano,
c’era l’ebano dei suoi occhi a scavare dentro di me.
C’erano le sue parole assieme alle mie:
una sgrammaticatura nel libro del cuore,
una tempesta nel cielo del quieto vivere,
la pecora nera nel gregge di cento pecore nate morte, ma bianche.
Mi ritrovai la mattina a zittire la sveglia
che da venti secondi oramai bucava la mia testa.
Era strano, ma avvertivo in me una confusione che non avevo mai provato,
almeno di mattina presto.
Ero come sputato fuori da un finestrino.
Sapevo che avrei dovuto lavorare,
ma non ricordavo né il giorno, né tantomeno il mese.
Iniziai la giornata come sempre,
con la mia colazione,
con il mio controllo e-mail,
e con un salto sul mio blog.
Ma sentivo che qualcosa non andava.
Uscii di casa, culo sul sedile verso il lavoro,
ma ancora pensavo.
Controllai se avevo preso le varie chiavi, se avevo le Marlboro,
se avevo l’agenda e il dentifricio con lo spazzolino.
C’era tutto.
Continuai la mia strada.
Ad un certo punto incrociai lei:
quella che mi riempì il cuore.
Allora lentamente quella sensazione di spaesamento iniziò a diradarsi,
come la nebbia attorno alle dieci di mattina.
Iniziai a ricordare che la notte precedente avevo sognato.
Avevo sognato lei.
Proprio come quando la ricordavo appena chiusi gli occhi.
La confusione divenne gioia
come quel vento effimero di un sogno realizzato.
Sette Cieli erano pochi per descrivere i miei occhi ridenti e il mio sorriso finalmente sereno.
Avevo coronato un’utopia.
Il vederla era stato la sveglia delle mie emozioni,
era il tocco di Chanel n° 5 per Marylin Monroe,
era quel pezzo di puzzle che riesci ad incastrare dopo tanti, troppi tentativi,
erano i papaveri rossi in mezzo a un campo di grano,
era un cielo vorticoso di Van Gogh.
Ero vivo, e ben presto me ne accorsi.
Tornai infatti a ricordare, ma stavolta con gli occhi aperti.
Il sogno cozzava con la realtà: lei non c’è più con me.
Stavo fantasticando,
stavo aggrappato a un ricordo,
stavo piangendo di nuovo.
Stavo mostrandomi di nuovo un cucciolo di uomo.
Arrivai al lavoro e mi asciugai gli occhi,
in bilico tra la timidezza e la felicità di averlo fatto.
D’altra parte mi aspettava un’altra giornata di piccoli soprusi da subire,
di rapporti asettici e verticali dal basso.
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