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Discussione: Il ferro ha salvato la mia vita

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  1. #1
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    Spero di poter vedere come finisce.
    IO NON TREMO

  2. #2
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    Anch'io... Al prossimo post

  3. #3
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    @ stefanopunk e Bl4cKCrOw: grazie, mi avete dato forza.



    Dopo un anno mezzo, cambiai palestra per ragioni logistiche. Ce n'era una proprio al crocevia tra casa asilo e lavoro, ben attrezzata, per cui pagai il trimestre e mi infilai i calzoncini. Avevo con me ancora la scheda preparatami dalla vecchia istruttrice, e nessuna intenzione di cambiarla, per cui salii sul tapis roulant, impostai la velocità a 7 e mi misi a trotterellare a passo leggero, in perfetta autonomia e a bocca chiusa.

    Perché io in palestra saluto quando entro e quando esco, come educazione vuole, ma non parlo mai con nessuno. E quando dico nessuno, intendo nessuno. Da quando la mia istruttrice era sparita, non avevo mai rivolto la parola a nessun altro istruttore. Le poche cose che avevo imparato in più le avevo apprese ascoltando i discorsi di altri, e mi sembravano più che sufficienti per il mio scopo, che non sapevo neanche esattamente quale fosse. Nella vecchia palestra ero diventato invisibile da tempo, ma ora ero appena entrato in una nuova, e sapevo di dover ritagliare di nuovo la mia posizione solitaria, cosa che speravo di fare il prima possibile. E ci riuscii.

    Dopo pochi minuti dal mio ingresso in sala cardio, infatti, dall'altra sala fu mandato ad accogliermi un istruttore. Lo intravidi grazie al riflesso dello specchio, quando ancora non sapeva che io lo stavo guardando. Alto, massiccio, sicuro, e scocciatissimo che toccasse a lui prendersi cura di un novizio come me. Infatti non solo non ero il cliente ideale, cioè una ragazza giovane, carina e un po' ochetta, ma addirittura un nerd pallido e occhialuto, che lo avrebbe fatto faticare a insegnare per l'ennesima volta come si usano i macchinari e non gli avrebbe mai dato alcuna soddisfazione, perché era una mezza sega senza speranza. Sbuffò fino a che fu accanto a me, poi mi fissò con un sorriso di plastica e disse: “Ciao!”. Io lo guardai come si guarda un venditore di rose cingalese che ti si avvicina quando stai fumando da solo fuori da un ristorante. “Ciao...”. Lui rimase colpito dal tono scostante. Guardò il display del tapis roulant, e l'esperienza gli disse due cose: che conoscevo lo strumento e che non avevo voglia di sudare in palestra. Era dubbioso sul da farsi, io gli feci un cenno con la testa che significava “perderemmo tempo entrambi”. Lui disse, sollevato: “Se hai bisogno mi chiami”, e si allontanò. Da quel momento potei muovermi liberamente senza essere infastidito, visto che tutti gli altri istruttori pensavano che fosse lui il mio riferimento, e lui non si sognava certo di venire a chiacchierare con me.

    Con l'ingresso nel nuovo ambiente avevo preso anche una decisione: avrei utilizzato la chiavetta Technogym per varcare l'entrata, ma non l'avrei mai più fatta programmare e non l'avrei mai più infilata in un macchinario. Era solo uno specchietto per le allodole, inventato per dare l'illusione di far parte di un complesso sistema ordinato, ma di fatto era solo una limitazione della libertà. Pagavo la tariffa per usare i macchinari e le docce, non certo per obbedire alle indicazioni di un gadget elettronico.

    Il mio allenamento, a quel tempo, pensato in origine come un A/B/C, era diventato, a causa del fatto che più di due volte a settimana non riuscivo mai ad andare, un A/B, e dopo qualche mese un A ripetuto due volte nella stessa settimana . Questo unico allenamento, che avrei ripetuto con costanza per quasi quattro anni (mi vergogno, oggi come oggi, a dirlo a me stesso), comprendeva decine di esercizi ordinati senza senso (la scheda era opera mia) e che non portarono a nessun risultato significativo dopo i primi mesi. Mi allenavo in una condizione permanente di stallo, e gli unici progressi erano dovuti di volta in volta a dei microcambiamenti nel numero di serie e ripetizioni che apportavo ascoltando i segnali del mio corpo.

    Credevo sinceramente di aver toccato il mio apice, e di dover lavorare sodo solo per mantenerlo. Quegli 8kg di curl manubri in fondo erano il doppio del peso di quando avevo iniziato anni prima, e dovevo essere contento così. Se mi alimentavo sostanziosamente toccavo i 73kg di peso, se mi veniva l'influenza perdevo un paio di kg e dovevo ricominciare da capo.

    Ma non ero insoddisfatto, anzi. Ero magro e tonico, assolutamente non definito ma con una forma accettabile. Ovviamente non potevo trasmettere un'impressione di forza, e non si poteva parlare di muscoli, ma mi piacevo.

    A volte mi prendevo delle soddisfazioni paradossali. Una volta ad esempio vidi, mentre mi avvicinavo alla rastrelliera manubri, un quarantenne molto alto, magro ma con uno scheletro significativo, che messo all'opera poteva dare molto. Era il suo primo giorno, e come tutti i novizi della palestra era stato messo a fare un'alzata manubri da 4kg, non meno di 10-12 ripetizioni. Fradicio di sudore, ansimando come un moribondo, si voltò e mi vide. Mi squadrò, e forte dell'impresa appena compiuta, commentò il mio fisico con un “Pfui” che mi indispettì. Ignorandolo, presi i miei manubri da 8kg e mi misi a fare il consueto curl. Quando vide che i miei manubri erano più grossi dei suoi e che a fine serie non arrancavo, rimase di sasso. Io mi allontanai, e dallo specchio lo vidi che afferrava i manubri che avevo appena riposto, per saggiarne il peso. Erano pesanti, non c'era dubbio. Pensare di fare l'esercizio con quei pesi, non se ne parlava. Qualcosa non gli tornava. Chiamò il più giovane degli istruttori, quello appena assunto, e parlò molto chiaro. “Senti un po', fammi capire bene perché questa cosa è parecchio faticosa: se io faccio questi esercizi mi vengono i muscoli?”. Il giovane rimase di stucco. “Beh, sì, chiaro...”, balbettò. “E no che non è chiaro! Quello lì alza molto più peso di me e non ha un muscolo! Come lo spieghi?” Il tipo mi aveva indicato. L'istruttore si voltò, e vide il mio sorriso sardonico riflesso. (“E' vero, ha ragione il signore, io alzo più di lui ma non ho muscoli, come glielo spieghi ora?”. “Bastardo”, mi dissero i suoi occhi che comunicavano con miei). “Per ottenere l'ipertrofia muscolare il sistema migliore è l'utilizzo di sovraccarichi, cioè di pesi che...” “No no, non ci siamo capiti, se io vengo qua è perché voglio i muscoli, quindi la mia domanda è: sei sicuro che facendo questo esercizio mi verranno i muscoli?” (“Dai, sii onesto, digli la triste verità, che a fare lento manubri con 4kg non gli verranno i muscoli, è impossibile. Ecco, digli così: impossibile!”. “Ma non glielo posso dire, ma pensa te che situazione”). Con voce rassicurante gli disse invece: “Ci vuole tempo e costanza...”. “Sì ma quanto tempo, quanto tempo per i muscoli?” (“Guarda, io sono cinque anni ormai e non ho un muscolo, e sì che ne ho alzati di pesetti da 4kg eppure eccomi qua, sono più seghino di lui anche se ne alzo 8. Secondo me questa storia dei pesi che fanno aumentare i muscoli è una bufala per fregare soldi al signore, siete dei truffatori ecco cosa siete”) “Beh, dopo qualche mese, i primi risultati già si vedono. Ovvio che ognuno risponde a modo suo allo stimolo e poi ci sono altri fattori...” “No, scusa ma non mi hai convinto per niente, comunque ora sono stanco e vado a fare la doccia, ma ne riparliamo perché mi sento un po' preso in giro, te lo dico proprio apertamente”.

    Al termine della scena, con due sole occhiate complici avevo conquistato la simpatia dell'istruttore giovane. Da quel momento mi salutò sempre con sorriso aperto, ma se tra di noi nacque qualcosa simile all'amicizia fu quando arrivò in palestra “la ragazza che non poteva riposare”.

    “La ragazza che non poteva riposare” era una trentenne dinamica e in carriera, approdata in palestra per migliorare il suo tono e la sua efficienza generale, e perché no, anche lavorativa. Il giovane istruttore la scortò in sala il suo primo giorno, per introdurla al magico mondo della tonicità. Quando mi vide seduto, non ebbe dubbi e me la portò a due metri. Primo esercizio: lat machine. La ragazza si fece spiegare bene la dinamica (inspirare, espirare, dieci ripetizioni etc.) e partì. Alla fine della serie disse istantaneamente: “Ora come procediamo?” “Riposiamo un minuto e poi lo rifacciamo”, disse sorridendo l'istruttore. “Come riposiamo? Non è meglio farlo subito senza riposare? Io non sono stanca!”. “Eh ma... tra una serie e l'altra si riposa un minuto, si fa così”, disse l'istruttore cercando con lo sguardo il mio appoggio. Io confermai con un cenno del capo. “Ma io non posso stare un minuto senza fare niente!”, squillò la ragazza. L'istruttore sussultò: “No ma passa in fretta, anzi è già passato, possiamo rifarlo”. La tipa ripartì, inspirò, espirò, terminò. Ora era scocciata: “Quindi ora dobbiamo aspettare di nuovo un minuto! No ma non ce la faccio, questa storia del minuto non mi piace per niente!”. L'istruttore ormai era avvilito, per cui decisi di consolarlo: “Invece a me il minuto di pausa è la cosa che piace di più”, dissi, “io vengo qui proprio per riposarmi tra una serie e l'altra.” Qui la ragazza si irrigidì: “No, calma un attimo, io non voglio fare amicizia, questo deve essere chiaro!”. Subito puntualizzai l'equivoco: “Neanche io voglio fare amicizia, infatti mi stavo rivolgendo al mio istruttore”. Che subito intervenne: “E' vero, stava dicendo a me”. La ragazza si agitò: “A chi diceva diceva, qui le cose non vanno, io non aspetterò tutti questi minuti, o faccio qualcosa o me ne vado”. “Abbiamo delle lezioni di step, giù, lì non si riposa mai, se vuoi ti faccio vedere la sala...”. “Io devo rimanere attiva, sempre, andiamo, cosa fai, se vuoi parlare con lui io me ne vado a casa!”

    Tra queste follie, gli anni passarono. Io andavo principalmente la mattina presto per questione di orari di lavoro, e venivo puntualmente tartassato da una ragazza logorroica, anoressica e completamente schizzata che pretendeva di avere un dialogo con me (visto che ce l'aveva con tutti), specialmente quando mi vedeva correre senza fiato sul tapis roulant: “Non parli molto”, “Perché non saluti?”, “Perché stai sempre zitto?”, “Mi sa che qualcuno qua pensa di essere migliore degli altri!”. “Scusa, sono senza fiato, non ce la faccio...”, dicevo io senza mentire. “Sì vabbè”, rispondeva lei. Negli ultimi tempi, vedevo sempre più spesso accanto a me anche l'istruttore alto e massiccio del primo giorno. Era stato convinto dalla ragazza logorroica che io snobbavo tutti, ed era comunque invidioso marcio del mio rapporto di complicità con l'istruttore neoassunto.

    Mi ronzava intorno, aspettando l'occasione buona per attaccare discorso, salvo poi recitare immediatamente la parte della figa offesa. Una volta mi stava fissando mentre facevo le estensioni dei tricipiti con manubrio. Come i miei occhi incrociarono i suoi venne lì e urlò: “E chiudili 'sti gomiti! Almeno chiudi i gomiti!”. Questo contraddiceva tutto ciò che avevo imparato negli anni: “Ma... non fa male all'articolazione bloccare il gomito?”. “Con 6 chili? E che male ti può fare? Mica sei di pastafrolla!”, disse andando via col naso all'insù e sculettando, più o meno come faceva la logorroica.

    Alla fin fine gli utenti della palestra erano sempre gli stessi, e potevano essere racchiusi nelle grandi categorie che tutti conoscono: le quarantenni che ti mettono il culo in faccia, le ragazzette amiche del mondo ma caste per non perdere valore sociale, gli anziani piacioni, i muscolosi che parlano solo tra di loro di integrazioni magiche e i pischelli in gruppo che cercano la via della figa.

  4. #4
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    Un giorno però arrivò un ragazzo che notai subito per la sua stranezza. Era decisamente diverso dagli altri, anche nell'abbigliamento, che non era affatto curato come quello degli altri frequentatori. In più ai piedi aveva delle Chuck Taylor della Converse, blu. Sulle prime pensai che fosse un novizio, e che qualcuno avrebbe dovuto dirgli che quelle scarpe per il tapis roulant non andavano bene. Ma non stava correndo sul tapis roulant, e non erano affari miei. Però mi aveva incuriosito, per cui lo tenni d'occhio. Tirò fuori dalla tasca un metro da sarto, e si mise a misurare il bilanciere che stava sulla panca piana. “Ma come li fanno 'sti bilancieri, sono tutti sbagliati!”, disse severo all'istruttore massiccio, che tanto per cambiare stava a due metri da me e che rispose assertivo: “Sì sì, lo so, hai ragione”. Cosa avessero di sbagliato i bilancieri, non era dato sapere. Forse erano troppo lunghi, o troppo corti, ma in fondo che differenza poteva fare? Il ragazzo con le Converse si stese sulla panca e inarcò la schiena, staccò il bilanciere e fece qualche ripetizione decisa in quell'assurda posizione. Io guardai l'istruttore, aspettando che lo riprendesse, ma quello lo fissava zitto. Il ragazzo si alzò, prese dei dischi e caricò ancora di più il bilanciere, poi si rimise in quella terribile posizione che mi faceva male solo guardare. Sentii mio dovere intervenire e richiamare all'ordine quel bambascione dell'istruttore. “Ma così si fa male alla schiena!”. “No, non si fa male...”, disse guardandomi con delusione, “La panca da gara si fa così”.

    La panca da gara? Mi stava prendendo in giro? Esistevano gare di panca? Per me era una novità. Le uniche garette di panca che avevo visto in anni di palestra erano fatti da due o tre bodybuilder quadrati che si sfidavano alla buona, tutti con pettorali e braccia enormi, gente molto diversa da quel ragazzino, e nessuno di loro aveva mai inarcato la schiena in quel modo innaturale e palesemente pericoloso. Intanto però il ragazzino non si spezzava e continuava a caricare dischi su dischi. Poi chiese una mano all'istruttore, che scattò in piedi quasi inorgoglito e si mise dietro la panca. “Non lo devi toccare, capito?”, disse il tipo minaccioso. “Sì sì, non ti preoccupare”, rispose l'istruttore concentrato. Passarono dieci minuti in cui i dischi aumentavano, e addirittura l'istruttore andò in giro a cercarne altri. All'ultima alzata il peso era diventato ai miei occhi qualcosa di surreale. Poi la seduta di panca finì.

    Il ragazzo si alzò e attraversò la sala. Lo fissai per studiarlo bene, certo che mi fosse sfuggito qualcosa. Era qualche centimetro più basso di me, e a occhio mi sembrava addirittura più leggero di me. Però a differenza mia era solido, era il più solido della sala, e sicuramente in quel momento il più forte. Da dove traesse quella forza, non riuscivo a capirlo. Quando lo vidi entrare sotto un bilanciere e fare lo squat, vicino al multipower ma non con il multipower, pensai che esistevano mondi di cui non ero a conoscenza, di cui la cifra caratteristica era l'incoscienza. Notando i miei occhi spalancati, l'istruttore massiccio si avvicinò ed esclamò: “Lui è forte. Lui fa le gare.” Lo disse con un'ammirazione che mi lasciò di sasso. In cinque anni che andavo in palestra non mi era mai pesato che gli altri fossero più forti, neanche che una parte delle donne fosse più forte di me. Non mi interessava molto, io avevo altre cose a cui pensare e andavo lì solo per riposare un minuto tra una serie e l'altra, e fare la doccia calda compresa nel prezzo. Ma vedendo quel ragazzino determinato, preciso, esplosivo sotto pesi più grandi di lui, realizzai per la prima volta che i miei sforzi erano patetici, e mi sentii molto piccolo. Mi girai per guardare l'istruttore, seduto a me, che lo fissava squattare. Ed ebbi l'impressione che si sentisse esattamente come me.

    Non vidi più quel ragazzo, ma nel periodo successivo mi misi per la prima volta dopo anni a fare la panca. Poche sedute, giusto per togliermi lo sfizio, ovviamente a fine allenamento. Il mio miglior risultato fu 34kg per otto ripetizioni. Quando mi vide l'istruttore massiccio, mi riprese: “La fai tutta di spalle, così ti fai male”. Effettivamente la spalla destra non apprezzava quel movimento, e scrosciava rumorosamente. “Allora insegnami”, dissi io, cedendo dopo anni di indipendenza e indifferenza. “Ma... ti interessa fare la panca?”, chiese dubbioso. “Eh, sono sulla panca, che dici?”. Lui rilanciò: “Ma ti interessa fare le gare di panca?”. “No, non esageriamo, io non potrei mai fare una gara”. “E perché?”. “Perché la perderei. Sono debole, sono anni che mi vedi, te ne sarai accorto.” “A quello si rimedia, la forza aumenta, potremmo fare una scheda mirata...”. Lo interruppi: “Se non è aumentata finora, dubito che lo farà in futuro.” “Vabbè ho capito, senti lo vuoi un consiglio? Fai il petto alla macchina dove l'hai sempre fatto, tanto non fa differenza, la panca non è per te, fidati.” Io alzai gli occhi al cielo e me ne tornai alla chest press Technogym, che con il suo movimento fluido e guidato mi aveva dato sempre soddisfazioni in sicurezza e non mi costringeva a parlare con uno che non perdeva neanche cinque minuti a spiegarmi un esercizio.

    Quando qualche settimana dopo lasciai per sempre la palestra, causa trasferimento per lavoro, non sapevo di aver perso l'occasione di imparare qualcosa. Rimpiansi gli allenamenti per qualche settimana, e poi la vita mi fece pensare ad altro. Fino a quando, anni dopo, il ferro tornò a fare capolino nei miei pensieri.

    Era una mattina di maggio del 2009, e io avevo ormai 37 anni...

    Nota: ho davvero esagerato, è mattina. Ma vorrei terminare entro domani notte, perché venerdì riparto per lavoro e starò via qualche giorno. Comunque ormai stiamo arrivando al punto...

  5. #5
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    scrivi molto bene è un piacere leggere. Con calma quando hai voglia continua.
    IO NON TREMO

  6. #6
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    Questo racconto sta appassionando anche me resto in attesa delle prossime puntate

  7. #7
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    Ho finito adesso di leggere tutti e 4 i post, mammamia che scorpacciata!!!

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