...Quando capisci che così non puoi andare avanti,
eppure continui a fingere che tutto sia ok...
ho finto per troppi anni pure io.......tempo perso
il dolore non esiste, esiste il fastidio, ma è sopportabile.
heero
Crateri traboccano di lava rovente,
sovente il pensiero si ferma e riparte.
Toccare col cuore la storia vissuta
è come distruggere anni di vita.
Perso nel lugubre infausto veleno
niente di meglio che piangersi addosso.
Passare in rassegna le vecchie scalate,
cime raggiunte, vette innevate.
Pensare di non dover nulla di più
solo perchè da dentro non senti
il male che ha fatto la competizione,
lasciando in disparte ogni emozione.
Si annulla lo sprone al nuovo e al diverso,
timori e spaventi in gocce ialine.
Diafano corri ma solo col vento,
che a ogni risvolto ti sparge all'intorno.
Senza una meta.
Senza un perchè.
Il solco è scavato,
il binario corre parallelo.
Un treno che altro non aspetta
che il dolce deragliare verso il nulla.
Ultima modifica di user_del87452; 29-07-2007 alle 05:13 PM
Penso che il male peggiore che possa capitare ad un uomo sia la vagabondaggine.
Vagare e volare con la testa.
Pensare a quello che non si può fare.
Pensare a quello che non fanno gli altri intorno.
Pensare a limare gli spigoli dei simili.
Aspettare dall'alto qualcosa che si pensa di meritare, quando in realtà nulla si è fatto per meritarselo davvero.
Solo perchè gli altri ce l'hanno, allora spetta anche a te averlo!
Invidiare gli altri, vagabondando di nuovo.
Astio su astio che accresce il cumulo di macerie intorno.
Montagne di livore s'innalzano senza un reale bisogno.
Solo la speranza che di nuovo qualcosa ti salvi, senza neanche corrergli incontro.
E vagabondare, ancora.
"Il tempo scorre e ti accorgi piano
che senza amore non si può vivere.
L'amore è grandezza,
è universo, è melodia."
"E' cara la vita seppure di attimi troppo
brevi e fugaci, seppure nella precarietà
della quotidianità spicciola
seppure si vorrebbe qualcosa di diverso."
"La disperazione uccide dentro.
La vita è bella, è un dono prezioso
e non si dovrebbe per nessun motivo
desiderare di perderla."
www.oltrelamaschera.it
D'improvviso bastano poche note per far uscire qualcosa da dentro.
Accendi una sigaretta, l'ennesima.
Senza pensarci su, tiri boccate.
Ingurgiti qualcosa di estraneo, per il solo desiderio di trascorrere con qualcuno che non c'è un tempo che non vivi.
Senza riflesso lo specchio di fronte.
Un sibilo all'orecchio.
Un sussurro voluto e cercato.
In questo momento ci sei solo tu a dipingere una tela con colori nascosti.
Pian piano cresce dal dentro una luce che ti rasserena.
Tanto poi per spegnerla il tempo ci sarà.
Vorresti non finissero mai queste note al tuo timpano.
Vorresti il colore della gioia a dipingere i tuoi vestiti.
Imbiancare pareti su una casa da vendere.
Vedendo il nero all'interno.
Finisce intanto la sigaretta: veleno amico sul portacenere.
Non senti il bisogno, negando il bisogno.
La realtà delle cose è un orologio mai fermo.
Il tempo che lascia nulla tra le mani.
Evitare di filtrare, evitare di saltare.
Girare il polso a controllare l'ora: le lancette scorrono, ma la tua esistenza si è fermata a quasi 10 anni fa.
Come cercare una porta in una stanza buia.
Tastare pareti luride e accorgersi che lo sporco ti è amico.
La porta c'è, la stanza è piccola.
L'esistenza lo è sempre di più.
Come può una situazione di vita vissuta, imprigionare il vivere futuro?
Come può l'essere a questo mondo, divenire schiavo di qualcosa che non c'è più?
Forse è l'autunno, forse è il mio persistere in certi errori, forse è il voler abbracciare Andromeda78 per quello che ho letto nel suo post.
Forse è la noia, forsè è il ciocco che arde, forse è il vento che viola l'intimità.
Forse è il malessere del non sentire, forse è la voglia di stare male, forse è il non pensare all'amore che meriti.
Forse sono le castagne che lentamente crepitano su una brace cattiva, forse è il freddo mattutino che intirizzisce la pelle.
Forse è quel calore dei corpi che assente si affaccia, forse è la faccia che rischia di andarsene via.
La malinconia di un qualcosa che senti sulla punta della lingua, impossibile da gustare a pieno: qualcosa di fugace, troppo, ma che è lì, ed ha solo bisogno della giusta chiave per essere raggiunto.
Il ricordo di un sapore, di un profumo, del voler risolvere i problemi.
Il senso di smarrimento davanti a mille porte: scegliere un vestito tra 10.000 non è come sceglierlo tra 10. Non capire cosa vorrai essere, restare nell'oblio del non scegliere.
Mi manca.
Mi manca il piacere fino di tornare a scuola da diplomato a salutare gli altri studenti che ancora devono finire il quinto anno.
Mi manca tornare e vedere le ragazzine che ti avevano eletto "mister istituto", guardarti con ammirazione e sentimento.
Mi manca vedere nei loro occhi la frase: "Lui ce l'ha fatta".
Ce l'ho fatta.
Ce l'ho fatta a capire che non capisco una sega.
Ce l'ho fatta a vedere in me tutto ciò che mi umilia.
Ce l'ho fatta a distruggere flebili rapporti umani.
Ce l'ho fatta a volare solo con la fantasia del nulla.
Ce l'ho fatta a sperare sempre in qualcosa che neanche ricerco.
Ce l'ho fatta a fare dell'immobilità la colla per questa vita.
Ce l'ho fatta a credere che quello che faccio non vale una sega.
Ce l'ho fatta a pensare che gli altri hanno sempre qualcosa in più di me.
Ce l'ho fatta a capire quanto devasta l'invidia.
Ce l'ho fatta.
Ma ancora martello e non mi fermo dal disintegrarmi.
Non c'è una reale motivazione nel pensare a certe cose.
Scivolano le idee su qualcosa che ti si staglia innanzi mentre nel mezzo della notte apri gli occhi.
Come se qualcuno te li avesse aperti a forza: per farti pensare.
I fiori?
L'inchiostro?
Le voci?
Niente di tutto ciò; solo il pensiero sottile che ti si è creato.
Allora pensi.
Pensi a cosa è la vita.
Cosa distingue un corpo vivo dallo stesso appena morto?
Eppure gli organi sono gli stessi, il sangue è sempre lì dentro.
Cosa lo tiene in vita?
Cosa lo spinge alla sopravvivenza?
Come definire questa cosa?
Non si può credere che siamo ciò che mangiamo, non si può davvero pensare che 2-1 fa 1 e 1-1 fa 0.
C'è un mondo da capire dietro la vita.
C'è qualcosa di eternamente strano che ci spinge all'oblio.
Emozioni, gioie, paure: non si possono racchiudere nel semplice gioco delle reazioni chimico-biologiche di un organismo.
Cosa è l'esistenza?
In quale parte del corpo è racchiusa la brezza vitale che ci tiene in piedi?
Potrei capire la differenza tra una candela accesa ed una appena spenta, ma tra una persona viva e la stessa appena morta, no.
Sono in equilibrio precario tra il vivere e il fuggire.
Sono nell'acqua, sono nella luce, sono nel vento, sono nella terra, sono su una sensazione di vergogna che mi spinge ad alzare lo sguardo.
Sono nell'inverno profondo di un colore spento di colpo.
Sono nelle gioie di chi non c'è.
Sono nell'ubriacatura di un povero alienato.
Sono in volata verso un traguardo sempre più distante.
Sono nel vivere maledetto, sono nel cantare disperato.
Viaggiano le persone tra troppi dubbi.
Colpi di lama tra carni macilente ruvide di problemi.
Sporche le tele, scucite le bende.
Unghie su unghie da divorare ancora tra sorrisi di cortesia, tra circostanze casuali.
Carne, abbracci, calore, comprensione.
Spingi... Spingi... Spingi...
Mi ritrovo di nuovo qui.
Indeciso.
Spaccato tra il provarci e il condannarmi.
Avrei la possibilità.
Lei c'è, forse domani la chiamo.
Ho paura di non dimenticare il dolore passato.
Ho paura di ricordare le vecchie cose idealizzandole in lei.
Ho paura di far stare male lei.
Ho paura di non smettere di stare male.
Ho apura di non sentirmi all'altezza di qualcosa che da troppo tempo mi nego.
Non voglio un altro buco nell'acqua.
Sinceramente non ho letto tutto il topic perché davvero lungo, però da quello che ho potuto carpire ti trovi più o meno come mi sono sentito io l'anno scorso per un periodo di tempo. Ed anche io amavo scrivere e buttare giù righe ma soprattutto mi ero dato alle poesie, soprattutto di Leopardi.
Ebbene, ti riporto una frase che mi disse un mio amico mentre eravamo a bere del vino in un pub: "Mi sono sempre chiesto quale sia il senso della vita. E alal fine credo che la soluzione ce l'abbiamo davanti agli occhi: il senso della vita è proprio questo. E' bere in compagnia di un amico, è un insieme di situazioni che ti possano permettere di trovare la felicità".
Una frase sconcertante ma che mi ricorda molti filosofi, tra i quali (non vorrei sbagliarmi ma è possibilissimo) Pascal. Pascal aveva ritratto il cosiddetto uomo pascaliano, che si affida al "divertissement" per tenersi occupato: l'uomo che viene lasciato libero di pensare finirà con il perdersi in domande che non hanno risposta quali il senso della vita e la morte, e si sconcerterà. Quindi ha bisogno di tenersi occupato per non pensare e fuggire dai problemi.
E' quello che ti consiglio vivamente di fare, nel mio piccolo. Posso assicurarti che con me è servito. Ho letto che lavori, bene quando arrivi a casa non pensare che hai tre ore di vita (cioè ipoteticamente dalle 19 alle 22) e poi si torna a lavorare. Iscriviti ad una squadra di calcetto di dilettanti, distraiti e nel contempo ricerca la felicità nelle piccole cose come una vittoria o una soddisfazione in generale sportiva. Buttati in un progetto nel quale coinvolgere altra gente, come la realizzazione di un sito web o un video simpatico per YouTube. Poniti degli obiettivi a breve termine e facilmente raggiungibili. Prova soddisfazione per le piccole cose.
Mi spiace per i miei consigli -mi rendo conto- molto superficiali, ma purtroppo non c'è modo di combattere una forza immensa quali sono i nostri sentimenti, e quindi ci tocca aggirarli.
Spero di essere stato comunque un minimo utile con i miei consigli.
Un'altra cosa: oggi hanno amputato la gamba ad un ragazzo della mia (ex) scuola a causa di un brutto incidente; non che fosse un mio amico, diciamo piuttosto conoscente.
Questo mi porta a riflettere che la felicità ce l'abbiamo tutti i giorni di continuo senza però rendercene conto finché non ci ritroviamo queste cose davanti agli occhi.
La differenza tra il vivere la realtà e il cercare di cambiarla sta nel fatto che se la si vive, la si gode con tutte le sue gioie e i suoi problemi.
Se si cerca di cambiarla, si finisce col diventare dei perdenti delle emozioni, dei loschi figuri dell'esistenza, dei poveri sassi gettati via dalla strada per non fare danno alle macchine che passano.
Come posso mettermi il cuore in pace cercando di accettare? E con "accettare" non intendo distruggere tutto a colpi di accetta.
Come posso?
Vasco Rossi diceva: "Domani sarà tardi per rimpiangere la realtà: è meglio viverla, è meglio viverla...".
Io sono dell'esatto parere opposto: vivere la realtà senza opporsi significa "esistere", non vivere, come fanno le piante o i molluschi.
Vivere vuol dire essere attivi, essere consci delle proprie scelte, adoperarsi per cambiare proprio quello che la natura non ha voluto donarci di suo, se c'è bisogno prendere a calci in c*lo la realtà.
Si può comunque, con un piccolo sforzo, unire i due momenti, perché è vero che per godersi appieno la vita bisogna anche sapersi fermare e farsi cullare dalle sensazioni che ti attraversano, subendole passivamente.
Anche, ma non solo.
Era presto quella sera in cui andai a letto.
C’era ancora il sole a salutare un arrivederci a domani.
I rumori all’esterno erano quelli tipici di un città agli sgoccioli
prima del rito della cena.
Avanti e indietro le persone sul marciapiede,
avanti e indietro il criceto nella sua ruota.
Volevo dormire e non pensare alla giornata di lavoro,
ai piccoli soprusi subiti, al rapporto asettico e verticale
che per l’ennesima volta avevo vissuto in ufficio, dal basso.
Provai allora a chiudere gli occhi,
ma dovetti riaprirli: stavo ricordando.
Tornavano nella mia mente i giorni confusi
e i volti amati.
Spingevano tumultuose le mie meningi
correndo il rischio di confondermi ancora di più.
Ero spiazzato: quel dolce sapore amaro della rimembranza
mi rendeva consapevole a autolesionista a un tempo.
Mi faceva sentire la malinconia di qualcosa che non c’è più,
e mi apriva il cuore.
Si schieravano davanti ai miei occhi tutte quelle persone,
tutte quelle sensazioni,
racchiuse nello zainetto che porto dentro di me,
e che purtroppo solo lì rimarranno.
Non torneranno più le persone per me importanti
e le storie spalmate sulla pelle.
E’ strano come un ricordo possa uccidere un uomo: lentamente.
E’ strano come il nuovo debba per forza far parte di noi,
comprimendo all’inverosimile il vecchio che resiste.
Decisi però di addormentarmi,
e cedetti al morso del ricordo.
Erano i giorni estivi dopo la scuola,
i pomeriggi con la persona che più amavo.
Quel miscuglio di sudore e vita che crivellava i nostri corpi.
Non c’era razionalità, non c’era profitto:
il soffitto della nostra stanza era un cielo talvolta nuvoloso.
Il sapore di ogni momento trascorso,
il miele della sua bocca,
l’Alcantara della sua pelle.
I suoi zigomi carnosi e golosi
erano una sola cosa col mio gioire di lei.
Non so esattamente quante volte passai le mani tra quelle spighe dorate
e neanche quanto sole rubò per essere così splendida.
So solo che lei c’era,
ed era talmente forte la sua dolcezza
da rendermi quasi crudele rispetto al resto della mia vita.
C’erano le sue mani a confortarmi,
c’era la sua maglietta, che poi volava via,
c’era la sua mancanza di violenza
e c’erano i fiori sul nostro cammino.
C’erano le parole d’amore che oggi mi mancano,
c’era l’ebano dei suoi occhi a scavare dentro di me.
C’erano le sue parole assieme alle mie:
una sgrammaticatura nel libro del cuore,
una tempesta nel cielo del quieto vivere,
la pecora nera nel gregge di cento pecore nate morte, ma bianche.
Mi ritrovai la mattina a zittire la sveglia
che da venti secondi oramai bucava la mia testa.
Era strano, ma avvertivo in me una confusione che non avevo mai provato,
almeno di mattina presto.
Ero come sputato fuori da un finestrino.
Sapevo che avrei dovuto lavorare,
ma non ricordavo né il giorno, né tantomeno il mese.
Iniziai la giornata come sempre,
con la mia colazione,
con il mio controllo e-mail,
e con un salto sul mio blog.
Ma sentivo che qualcosa non andava.
Uscii di casa, culo sul sedile verso il lavoro,
ma ancora pensavo.
Controllai se avevo preso le varie chiavi, se avevo le Marlboro,
se avevo l’agenda e il dentifricio con lo spazzolino.
C’era tutto.
Continuai la mia strada.
Ad un certo punto incrociai lei:
quella che mi riempì il cuore.
Allora lentamente quella sensazione di spaesamento iniziò a diradarsi,
come la nebbia attorno alle dieci di mattina.
Iniziai a ricordare che la notte precedente avevo sognato.
Avevo sognato lei.
Proprio come quando la ricordavo appena chiusi gli occhi.
La confusione divenne gioia
come quel vento effimero di un sogno realizzato.
Sette Cieli erano pochi per descrivere i miei occhi ridenti e il mio sorriso finalmente sereno.
Avevo coronato un’utopia.
Il vederla era stato la sveglia delle mie emozioni,
era il tocco di Chanel n° 5 per Marylin Monroe,
era quel pezzo di puzzle che riesci ad incastrare dopo tanti, troppi tentativi,
erano i papaveri rossi in mezzo a un campo di grano,
era un cielo vorticoso di Van Gogh.
Ero vivo, e ben presto me ne accorsi.
Tornai infatti a ricordare, ma stavolta con gli occhi aperti.
Il sogno cozzava con la realtà: lei non c’è più con me.
Stavo fantasticando,
stavo aggrappato a un ricordo,
stavo piangendo di nuovo.
Stavo mostrandomi di nuovo un cucciolo di uomo.
Arrivai al lavoro e mi asciugai gli occhi,
in bilico tra la timidezza e la felicità di averlo fatto.
D’altra parte mi aspettava un’altra giornata di piccoli soprusi da subire,
di rapporti asettici e verticali dal basso.
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